Miriam Leone: «Non sono un impostore»

Ho appena visto Miriam Leone in Il testimone invisibile, un film che mi ha tolto il fiato per la tensione e la continua sorpresa, e adesso incontro Miriam Leone nel giardino di un hotel, e lei mi toglie di nuovo il fiato: per la bellezza di chi non vive per la propria bellezza.

È senza trucco, è stata sul set fino alle quattro del mattino, ha i capelli finalmente liberi dalla parrucca, alle orecchie le cuffie perché è arrivata cantando. «Io ancora sogno di poter fare questo mestiere, e quando sono sul set mi sento bene, mi sento veramente a casa: sono felice, sono stanchissima, sono grata di questa vita che mi ha scelto e che sentivo dentro di me fin da quando ero una bambina».

L’attrice Miriam Leone, 33 anni, parla e mangia velocissima il suo toast, io sono ancora al secondo morso e lei ha già finito e ha già risposto a due domande, «sono abituata a mangiare mentre mi pettinano per le scene, mentre mi truccano, e poi amo i toast».

Le confesso che sono un po’ sconvolta da questo film, che uscirà nelle sale il 13 dicembre, diretto da Stefano Mordini e interpretato anche da Riccardo Scamarcio, Fabrizio Bentivoglio e Maria Paiato, «un thriller con due omicidi e un solo corpo», dice Miriam che non può spingersi oltre perché rischiamo continuamente di rivelare quel che, in un thriller puro come questo, deve tenere incollati gli spettatori alla poltrona.

Ma puoi parlarci di Laura, la fotografa che hai interpretato, l’amante di Riccardo Scamarcio.
«Laura muore, viene uccisa in una stanza d’albergo e l’unico indagato è il suo amante, Laura quindi non vive nel presente ma nella volontà del racconto, nelle parole di chi la evoca, e vive di eterni istanti: mi inquieta e mi affascina l’idea, portata all’estremo in questo film, della strada sbagliata. I due amanti, amanti classici convinti di tenere le loro vite familiari perfettamente sotto controllo, commettono un primo errore, e da quel momento, come per un effetto domino, tutto precipita, un pezzo dopo l’altro. È molto eccitante, è come uno spogliarello lento, in cui alla fine però la verità esiste, non restiamo in sospeso, e tutto questo è doloroso ma consolante al tempo stesso».

Miriam beve la sua spremuta, sorride, ringrazia il cameriere che la guarda estasiato e imbarazzato, e la luce del giorno, il sole di Roma a novembre, entra nei suoi occhi che cambiano continuamente sfumatura di verde: guardandola penso che la bellezza ha sempre qualcosa di sovrumano, come se tutti gli elementi, il cielo la terra e il mare di Sicilia si fossero messi d’accordo per creare qualcosa di stupefacente.

E tu come ti sei sentita dentro questo film?

«Quando la prima sera in Trentino abbiamo cenato tutti insieme non ho aperto bocca, io che non sono per niente timida: l’incontro con Fabrizio Bentivoglio, che io ammiro tantissimo, mi ha ammutolito. Lo ascoltavo e basta e mi sentivo assalita dalla sindrome dell’impostore. Ma è stato bellissimo, abbiamo bevuto un vino buono, mangiato la misticanza con i fiori, cenato sempre in gruppo parlando tanto del film, e di noi stessi, di tutte le luci e le ombre che servono per costruire una verità: mi sono sentita parte di un gruppo meraviglioso».

E se guardi indietro che cosa vedi?

«Sono passati dieci anni da Miss Italia, avevo 23 anni e non ero una bambina, anzi posso dire che ero la zia delle altre ragazze, e la mia vita è cambiata in un modo che fatico ancora a decifrare: da quando avevo 16 anni mi chiedevano di partecipare al concorso, ma io non avrei mai fatto nella mia vita una sfilata in costume nella piazza del duomo di Acireale, non ero io, ma ci fu una selezione a Roma che dava accesso direttamente alle finali, e io l’ho vinta. Sono andata pensando: io lo so dentro di me che cosa voglio fare, e questa può essere una carta da giocare per emanciparmi e per andare via da questa realtà in cui stavo seduta davanti al mare a guardare l’orizzonte e aspettavo che succedesse qualcosa. Guardavo i film dei Bellissimi di Rete 4 dal divano sfondato della cucina di casa mia, prendevo il traghetto verso il continente e tornavo subito indietro. Studiavo Lettere all’università, ma non sapevo che cosa avrei fatto della mia vita, ero senza futuro».

Tuo padre è un insegnante di Lettere.
«Sì, un insegnante vecchio stile innamorato del suo mestiere. Adesso è in pensione, ma ancora i suoi studenti gli mandano bigliettini di ringraziamento e di auguri. Era come se mio padre fosse in cima alla biblioteca di casa: mi arrampicavo su questi scaffali, uno dopo l’altro, leggendo questi libri, forse anche per raggiungere lui, ma soprattutto per un bisogno mio personale di evasione e di salvezza. Ho imparato a leggere a 4 anni per farlo contento e da allora ho letto sempre, ho letto tutti i classici nella mia stanza chiusa a chiave e a voce alta, interpretando tutti i personaggi».

Quindi sapevi già allora che volevi fare l’attrice.

«Io adesso credo di averlo sempre saputo, almeno dai 5 anni, quando facevo dei tappeti rossi in casa: mettevo la passatoia della cucina in corridoio, con lo scotch perché mi sono spaccata la testa da piccola proprio per fare il tappeto rosso, e sentivo le voci dei fotografi che mi chiamavano, Miriam! Miriam!, e questa cosa non potevo averla vista da nessuna parte. Io stavo in Sicilia, ad Aci Catena, Aci Castello e Acireale: una volta è venuto Lucio Dalla e ci siamo strappati i capelli perché non ci sembrava vero che una celebrità fosse venuta da noi. E come Rossella O’Hara in Via col vento, mi disegnavo e cucivo i vestiti per occasioni immaginarie, vengo da una famiglia di sarte, e dentro di me creavo le storie, ripetevo le battute dei film, ma credevo che fosse un hobby, oppure la follia, credevo che sarebbe rimasto il mio segreto».

E poi?
«Poi ho vinto Miss Italia, e un pomeriggio stavo a Roma, mangiavo un panino in centro, e mi ha fermata un casting per una piccola parte in un film del regista Giovanni Veronesi. Come sempre la mia prima risposta è stata: “No, non ce la faccio”. E poi invece l’ho fatto, e ho passato il provino. E stare per due giorni su un set a Nizza mi ha fatto dire: “La vita è una cosa meravigliosa, questo è quello che voglio fare”. Non ho più smesso, non voglio più smettere. Voglio solo avere il tempo per vivere, perché se recidi i rami della vita ti inaridisci, io invece ho bisogno di fermarmi per riempirmi di vita, persone, noia, musica, libri e pensieri».

Tuo padre è fiero di te?
«A inizio carriera, quando ero sotto i riflettori, era spaventato. Adesso invece lo vedo che mi guarda in un modo bello, è contento di me e di mio fratello minore che fa il pianista classico, ha capito che il nostro straniamento era dovuto all’arte. E io sono felice di poter restituire tutto quello che di meraviglioso ho avuto dalla mia famiglia».

Che cosa pensi di quello che è accaduto nel mondo del cinema, e ovunque, a partire dal caso Harvey Weinstein, il produttore americano accusato di molestie?
«Penso che quando il vulcano erutta, bisogna aspettare che la lava si raffreddi per vedere realmente quali saranno gli effetti di quest’esplosione. Questo è ancora un momento molto complicato, in cui entra anche la possibilità dell’esagerazione, delle piccole bombe Molotov lanciate per un risentimento personale. Ma io credo che fosse necessario, e in tutti gli ambienti di lavoro. Non ci si può mai più ritrovare nelle situazioni delle segretarie degli Anni 50. Lavoriamo tutte, e tutte meritiamo rispetto. Si può dire sì e si può dire no, in consapevolezza e libertà. Ma questa consapevolezza è necessaria anche da parte dell’uomo: dove c’è il no, non c’è consenso. E io dico sempre: “Cari uomini, fatevela una risata, prendete questo due di picche con ironia, non è la fine del mondo”. E poi bisogna distinguere tra gioco della seduzione, molestia, abuso, violenza: è un territorio complesso. Si tende in questo momento a mettere tutto nel calderone dell’indignazione: ma io sono indignata per la violenza che le donne subiscono ogni giorno nel mondo, tra le pareti domestiche e nei luoghi di lavoro».

A che cosa dobbiamo tendere?

«Si deve arrivare a una parità per cui si gioca in due, e quando è uno solo a giocare sarebbe bello, sarebbe maturo, che si facesse una risata e si rivolgesse altrove».

Tu come lavori con gli uomini?
«Io lavoro benissimo con gli uomini, amo lo scambio, anche la battuta greve mi fa ridere, la prendo con ironia. La grevità della battuta che mi viene fatta appartiene a chi la fa, proprio non mi tocca. E sono la prima che spesso fa una battuta con una parolaccia, ma se c’è qualcuno che ha dei problemi, che non ha imparato a vivere e a relazionarsi, non ho intenzione di fargli da assistente sociale. L’importante è che ci sia la consapevolezza che non si può usurpare il diritto della donna a dirti di no».

Che cosa pensi del movimento anti molestie italiano?
«Ho apprezzato e aderito a Dissenso Comune e #nonènormalechesianormale. Dobbiamo rompere le scatole, sensibilizzare, fino ad apparire noiose, bisogna comunicare questo messaggio semplice: no vuol dire no. Dobbiamo parlarci, incontrarci, arrivare con l’aiuto di tutte alla sintesi ragionata di questo momento che è per forza di cose anche emotivo. Ma in ogni caso, anche con le imprecisioni, è un momento importante perché ha aiutato le donne a non sentirsi sole, a comunicare e a essere credute. È così che si spezza la catena della violenza. E i diritti per cui lottiamo non sono diritti di genere, ma diritti umani universali».

Hai mai avuto paura di un uomo?

«Io ho molta paura per strada, quante volte prendo il telefono per finta e dico: “Sì, sto arrivando”, perché magari sento un passo pesante alle spalle. Siamo donne, siamo sorelle in questo, è successo a tutte nella vita di sentirci in un angolo troppo buio, di avere sbagliato strada. Ma vogliamo anche la libertà e l’indipendenza di girare da sole, perché l’abbiamo conquistata e non possiamo perderla».

Che cosa aspetti, in che cosa speri, che cosa ti manca?

«Voglio volermi bene veramente, essere fiera di me, liberarmi della sindrome dell’impostore, essere in equilibrio con l’amore per me stessa, e non avere paura anche della soddisfazione».

Fonte: https://www.grazia.it/

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